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sabato 10 ottobre 2015

Politici Italiani : Ciarlatani e Medicina



Elena Cattaneo: “Per molti politici italiani non c’è differenza tra ciarlatani e medicina”
Vaccini, Ogm, Stamina. Non è l’Italia ad essere oscurantista, ma la politica a dar retta alle spinte meno serie della gente. E i media non aiutano
  
La rivista “Nature” l’ha salutata con un “Brava Elena”, attribuendole, giustamente, la vittoria nell’affaire Stamina.
Ma Elena Cattaneoè molto di più. Scienziata dell’Università di Milano, seduta su una pila di riconoscimenti internazionali, è stata nominata da Giorgio Napolitano senatore a vita. Ed è convinta che educare la politica alla scienza sia la mossa vincente. Ma non solo.

Caso Stamina, sperimentazione animale. Ma non solo. Spesso gli orientamenti degli italiani vanno contro i risultati della scienza. Perché secondo lei?
Benchè gli italiani, come tutti, siano immersi ed indissolubilmente legati a quanto conseguito dalla scienza, succede che venga vissuta, paradossalmente, come poco accessibile e poco vicina al sentire dei cittadini. Per un verso gli scienziati dovrebbero fare di più per spiegare non tanto i risultati ma la fatica, il coraggio, i fallimenti e raccontare come le conquiste scientifiche sono di tutti e per tutti.

Anche i media hanno la responsabilità di fare da cinghia di trasmissione dei fatti. Spesso, invece, tra semplificazione del messaggio e ricerca del clamore si tradisce il significato ed il portato della “nuova conoscenza”. Spesso scienziati e media comunicano il “risultato”, il “prodotto” trascurando il processo, il percorso che ha condotto a quel risultato.

Così i cittadini sono privati della consapevolezza necessaria per comprendere che una cura, ad esempio, non è “un coniglio che esce dal cilindro”. Nello stesso tempo li si priva anche della grande opportunità formativa e costruttiva che il metodo scientifico porta con sé per chiunque vi si accosti. Così gli italiani non percepiscono “veramente” cosa significhi fare scienza e quale straordinario strumento sia per appurare la realtà, ogni giorno, al meglio della nostra possibilità.

Se ne parla poco sui media. Pochissimo in TV. Si predilige una comunicazione fatta di “narrazioni umorali” anche quando si trattano temi che obbligherebbero ad ancorarsi ai fatti, a ciò che è stato verificato. Quindi, se è ovvio che la scienza non possa che dire come stanno le cose, anche quando è doloroso, i ciarlatani, al contrario, promettono miracoli (che ogni volta si dissolvono nel nulla).

Questo rende la scienza debole, a prima vista, agli occhi di un pubblico che ha una dieta mediatica composta essenzialmente di grandi miracoli o grandi catastrofi. Invece, i Paesi in cui i cittadini sanno cosa sia la scienza hanno grandi vantaggi, prima di tutto il prezioso strumento di comprendere che il metodo scientifico, nelle condizione date, è l’unico strumento che consente di appurare al meglio i fatti dell’oggi, coltivando fiducia nel domani.

I dati dell’AnnuarioScienza Tecnologia e Società indicano che, in maggioranza variabile a seconda dei temi, gli italiani sono sempre meno ignoranti scientificamente. Che hanno in grande considerazione il lavoro degli scienziati. Che accettano in maniera strumentale i benefici delle scienze, soprattutto biomediche. E che sono favorevoli a molte delle innovazioni scientifiche osteggiate invece dalla politica. (ricerca biotech, fecondazione assistita ad esempio). E i sociologi della scienza affermano che spesso la percezione che i politici hanno dei desideri dei cittadini in materie scientifiche non corrisponda affatto alla realtà di questi desideri. Non è che i politici sono più antiscientifici degli italiani? Cosa ne pensa? 
La categoria del politico in astratto rispetto al cittadino è una pericolosa semplificazione. Il tema sotteso alla domanda è quanto il personale politico del Paese sia in grado di rappresentare il sentire e il volere dei cittadini in generale. Restando alla scienza, sulla base dei dati a cui si riferisce, si può osservare come, forse, i cittadini che si confrontano quotidianamente con le difficoltà e la speranza della vita abbiano sempre di più il polso di quanto un’innovazione scientifica possa incidere sul loro benessere e sulla libertà più di quanto, i loro politici, riescano a immaginare che siano in grado di fare. Politici che, inoltre, rispondono spesso a logiche di appartenenza che – paradossalmente – potrebbero allontanarli dal sentire comune e dal comprenderlo e guidarlo in modo più razionale, basato sulla conoscenza dei fatti.
Sulla “antiscientificità dei politici”, da quando frequento le aule parlamentari, posso però testimoniare come la situazione sia molto eterogenea. Così come vi sono alcuni con profonde competenze in ambito umanistico e aperti ed interessati anche a capire altre discipline, vi sono pure parlamentari che su temi scientifici sarebbero pronti a approvare qualunque legge sulla scorta del sentito dire e senza alcun indispensabile approfondimento tecnico.

Ci sono un bel po’ di esempi: non hanno alcuna idea di cosa sia in concreto la sperimentazione animale, ma chiedono che sia abolita; non hanno idea di come si arrivi a identificare un trattamento per una malattia umana e ti dicono che puoi arrivarci comunque con un computer o un piattino di cellule. Magari sono anche gli stessi che non capiscono la differenza tra i ciarlatani e la medicina.

Ci sono persino parlamentari che, ribaltando la realtà delle cose, cercano di far passare lo scienziato come “persona con pregiudizi”, ad esempio semplicemente perché si avvale delle prove della scienza per argomentare a sostegno dell’innocuità di specifici Ogm. Alcuni politici, sempre restando a questo esempio, li definiscono “pericolosi per la salute umana” e poi accettano che vengano importati a tonnellate per nutrire le nostre filiere alimentari. Sono posizioni incoerenti oltre che non documentate. Sta al cittadino, in definitiva, non solo percepire quanto gli sia utile la scienza, ma orientarsi verso rappresentanti, diciamo così, in grado di comprendere e includere le conquiste fatte per tutti nelle scelte per il Paese.

Sempre, di fronte a fatti come quello di Stamina o a questioni come Ogm o vaccini le posizioni si polarizzano: da una parte la comunità scientifica che afferma le sue conclusioni in maniera apodittica, senza esplicitare quelli che sono i limiti della conoscenza scientifica. Dall’altra una parte dell’opinione pubblica che nel formarsi il giudizio fa prevalere un atteggiamento politico o etico. Sembrano entrambe posizioni fideistiche. Insomma, l’impressione è che nessuna delle parti abbia un atteggiamento “laico” che metta in campo i pro e i contro. Cosa ne pensa?
Non so se la comunità scientifica non espliciti i limiti della conoscenza scientifica, mi pare piuttosto che, a volte, rinunci ad adeguare il suo linguaggio alle modalità della divulgazione. Talvolta in Italia, a differenza dei paesi di cultura anglosassone, c’è una ritrosia di una parte della comunità scientifica circa l’opportunità di impegnarsi, al pari dell’attività accademica, nel portare la scienza al pubblico. Parallelamente c’è un apparato mediatico che, non di rado per incapacità o disinteresse o tornaconto, trova ben più comodo dello studio e della preparazione che servirebbe per proporre un ragionamento degno di questo nome, rifugiarsi in schemi di narrazione ideologici che in questo paese sembrano buoni per ogni occasione. Molto spesso il giudizio distorto del pubblico, il prevalere di atteggiamenti incomprensibilmente irrazionali, dipende dalla sciatteria di ciò che si comunica o dalla sua parzialità, che è anche peggio.
È indubbio che la comunità scientifica in Italia sia meno capace di influenzare il dibattito pubblico di quanto non lo sia in altri paesi. Perché?
Quel che forse fa più male è quando lo scienziato addirittura si autolimita perché teme che la sua esposizione pubblica possa nuocere alla carriera, ai finanziamenti o semplicemente alienare simpatie politiche. Talvolta qualcuno nella comunità scientifica è troppo silente, poco coraggioso. Oppure si chiude in se stesso forse perché da sempre non considerato, e questo ha peggiorato le cose.

Bisogna anche dire che nel paese manca un’educazione, anche politica, che ritenga necessario, come avviene in tante democrazie avanzate, l’ascoltare con serietà massima i dati empirici dei fenomeni, prima di adottare le scelte di politiche pubbliche decisive per la società. Questo punto richiama le responsabilità della classe politica, che troppo spesso ha mostrato di seguire furbescamente il richiamo “della pancia delle piazze” piuttosto che onorare con senso di responsabilità il proprio compito, primo fra tutto quello di volere (e far) conoscere prima di deliberare.

Invece, spesso, si sono trattate le raccomandazioni della scienza, legate ai fatti, come opinioni alla stregua di tutte le altre opinioni. Questo è un atto di colpevole irresponsabilità, le cui conseguenze gravano poi sugli stessi cittadini e sui più deboli tra loro, oltre che sulla credibilità delle istituzioni del nostro paese.

La comunità scientifica dal canto suo ha gli argomenti per essere utile al paese: tirarsi indietro per poi lamentarsi non è un atteggiamento che condivido. Così come da parte delle Istituzioni, non è giustificabile che la scienza la si invochi a tratti, spesso come spauracchio, senza riconoscerne gli indubbi meriti e competenze.

La fiducia nelle istituzioni nel nostro paese è debole. E le istituzioni scientifiche sono vittima di questo handicap di contesto. Cosa ne pensa?
In realtà le competenze in Italia le abbiamo. Molteplici sono le eccellenze mondiali, proprio in campo scientifico, di cui possiamo andare orgogliosi. Nell’immediato è necessario che ciascuno svolga il proprio lavoro al massimo della propria professionalità, cercando le evidenze e stando lontani dalle convenienze.? Così si recupera fiducia.

Ciascuna Istituzione Scientifica rifletta su quali siano gli aspetti su cui può migliorare nell’aprirsi alla comunità e senza timori si mostri per quel che quotidianamente fa per la collettività. Per altro, verso lo Stato, dati empirici alla mano, serve che vi sia un rinnovato impegno -anche di risorse- nel rilanciare la formazione e le attività del Paese in materie ad alto tasso di scientificità, perché ogni ritardo arreca un grave danno alla nostra competitività.

Bisogna preservare almeno la ricerca pubblica di base da politiche squisitamente depressive, rilanciare un patrimonio di conoscenza che ancora sopravvive, ma che se non difeso (e in questo campo la stasi è equiparabile alla regressione) potrebbe definitivamente depauperarsi in pochi anni, “bruciando” molta più speranza per il futuro di quanto si possa immaginare.

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